Egemonia e cultura in tempi di controrivoluzioni soft (libro in pdf)

Nestor Kohan, immagine da Contexto Latinoamericano

C’è poco da fare: se vogliamo ancora ascoltare un pensiero aperto, vigile, libero e disincantato rispetto alle sirene del liberismo, dobbiamo volgere il nostro sguardo e le nostre orecchie all’America Latina e, in particolare, a Cuba. Per questo, suggeriamo la lettura del libro di Néstor Kohan, scaricabile in formato PDF – per adesso in spagnolo – cliccando qui: Hegemonía y cultura en tiempos de contrainsurgencia “soft”.
Néstor Kohan è nato in Argentina nel 1967, lo stesso anno in cui Che Guevara fu assassinato in Bolivia. È cresciuto in un’America Latina dove ancora si respirava la genuina aspirazione alla rivoluzione continentale; la stessa America che soffriva dittature sanguinarie. Filosofo, studioso delle opere di Simón Bolívar, Karl Marx, Antonio Gramsci, Ernesto Guevara e Fidel Castro, ha conseguito un dottorato in Scienze Sociali all’Università di Buenos Aires, dove è anche titolare di una cattedra.
Cuba è per lui una seconda casa: non solo è legato alla nazione caraibica da legami formali, come l’essere stato nella giuria del Premio Casa de las Américas, ma lì ha amici molto cari e preziosi, alcuni dei quali non sono purtroppo più tra noi, come il maestro di tanti marxisti cubani Fernando Martínez Heredia.
Nel percorso di Néstor spiccano la fondazione della Scuola Nazionale Florestan Fernandes del Movimento dei Sem Terra del Brasile, il coordinamento del Gruppo di Ricerca “Marxismi e Resistenze del Sud Globale” e della Cattedra Che Guevara, il ruolo di ricercatore presso l’Istituto di Studi di Latinoamerica e Caribe e il Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica e Tecnica, e la militanza nella Rete degli Intellettuali, Artisti e dei Movimenti Sociali in Difesa dell’Umanità.
È un coerente rappresentante del marxismo latinoamericano, è stato in più occasioni coinvolto in polemiche alla stessa maniera con i seguaci dell’eurocentrismo, del postmodernismo, del liberalismo e del marxismo ortodosso. Le sue ricerche sono state tradotte in inglese, francese, tedesco, portoghese, italiano, arabo, yiddish, basco, galiziano e catalano.
Qui, Néstor è intervistato sul suo libro da Rodolfo Romero Reyes, di Cubadebate. Ascoltiamolo, è interessante: ci parla di temi molto attuali in tutto il mondo, ci parla della crisi delle sinistre, di battaglie per l’egemonia culturale perse senza consapevolezza, dell’originalità dei valori fondanti della Rivoluzione cubana che ha sempre saputo saldare forze eterogenee mentre in Occidente si distruggono le forze affini…

Hegemonía y cultura en tiempos de contrainsurgencia “soft”
Intervista di Rodolfo Romero Reyes a Néstor Kohan, Cubadebate, 14 agosto 2021

D: Perché ha scelto i testi degli argentini Haroldo Conti e Daniel Hopen come preludio al libro Egemonia e cultura in tempi di controinsurrezione “soft”?
R: Haroldo Conti, di origine cristiana (ha fatto gli studi in seminario per diventare sacerdote), è uno dei grandi scrittori argentini di narrativa. È stato prima nella giuria della Casa de las Américas (Cuba) e poi ha vinto quello stesso premio per uno dei suoi romanzi più famosi. Daniel Hopen, più giovane e con una solida formazione marxista, proveniva dall’ambito della sociologia. È stato professore all’Università di Buenos Aires e anche giornalista. Entrambi erano strettamente legati politicamente, ideologicamente ed emotivamente alla rivoluzione cubana, al punto che uno dei soprannomi di Hopen era “il cubano”.
I due sono stati militanti rivoluzionari ed entrambi hanno denunciato ripetutamente i tentativi di cooptazione dell’intellighenzia latinoamericana da parte di istituzioni apparentemente “innocenti”, ma in realtà intimamente legate all’apparato di intelligence dello Stato nordamericano. Per la loro militanza antimperialista e le loro attività da intellettuali critici, entrambi sono stati sequestrati e fatti sparire.
Inizio il mio libro sui dibattiti riguardanti l’egemonia e la controinsurrezione nel XXI secolo con citazioni da entrambi per due motivi. In primo luogo, come omaggio ai nostri 30.000 compagni e compagne scomparsi. E in secondo luogo, per la travolgente attualità dei loro spiriti ribelli, riluttanti ad “accomodarsi” con il potere imperiale, rifiutando di ricevere denaro “altruista” da quelle fondazioni statunitensi con la facciata di “società civile”, ma che come tutti sapevano all’epoca, e continuano a sapere oggi, rispondevano a una politica di strategia controinsurrezionale. Seguendo i loro insegnamenti, non possiamo ritenere normali l’ingerenza e le azioni di controinsurrezione negli ambiti delle arti, della cultura, delle scienze sociali, della letteratura o dei movimenti sociali.

D: Il pensiero di Antonio Gramsci è centrale nelle sue riflessioni. Quali sono le principali idee gramsciane alla base delle tesi di questo libro?
R: Gramsci è stato manipolato all’infinito. Dalla socialdemocrazia e dal liberalismo fino al sedicente “post-marxismo” (in realtà ex-marxismo) e ai cosiddetti “studi post-coloniali”. Hanno cercato di trasformarlo in un timido sostenitore degli accordi parlamentari e in un innocuo postmodernista che specula in modo dilettantesco su “questioni culturali”, dissociandolo da qualsiasi progetto rivoluzionario e strategia conflittuale. Come se la sua prigionia e il lento assassinio, compiuto crudelmente e un poco alla volta, per mano del fascismo italiano, fossero avvenuti “casualmente”!
Nel tentativo di salvaguardare il suo pensiero rivoluzionario ci siamo opposti ai tentativi di pastorizzarlo, decaffeinarlo e trasformarlo in un’icona leggera, facilmente addomesticabile e adattabile agli scopi più diversi. Come pensatore rivoluzionario, ardente ammiratore di Lenin e della rivoluzione bolscevica, pensatore delle periferie e delle classi subalterne, militante clandestino per anni nell’Internazionale Comunista, Gramsci fece le sue riflessioni sulla base di una sconfitta, quella del movimento dei consigli di fabbrica di Torino.
E in questa riflessione, che parte dalla domanda: “Perché abbiamo perso?”, arriva a interrogativi di sconvolgente attualità. Adottando la teoria leninista dell’egemonia, Gramsci la perfeziona, la lucida, la sviluppa e la trasforma nella chiave di volta del marxismo rivoluzionario. Rompendo il dualismo tra “cultura alta” e senso comune popolare, le sue principali conclusioni indicano che l’egemonia deve essere ricreata quotidianamente. Il sistema capitalista, l’imperialismo, i diversi fascismi e la controinsurrezione non solo uccidono, torturano, fanno sparire gente, sorvegliano, perseguitano, censurano e imprigionano la militanza rivoluzionaria. Allo stesso tempo costruiscono egemonia. Non solo al livello più facilmente osservabile delle “grandi ideologie”, ma anche negli ambiti microscopici, ma non meno importanti, della vita quotidiana.
Il concetto di “ideologia” è polisemico. Il marxista britannico Terry Eagleton ha identificato e sistematizzato non meno di 26 nozioni e significati diversi di questa categoria. Ma in termini convenzionali “ideologia” si riferisce di solito a sistemi formali di idee, ipotesi e teorie. La teoria dell’egemonia, d’altra parte, incorpora questo contenuto e possiede un surplus molto attraente. L’influenza e il dominio delle classi dominanti e delle potenze imperialiste non si esercita solo sulle “idee”, ma anche sui sentimenti, le emozioni, i valori e le esperienze della vita quotidiana, apparentemente “non politici” e, si presuppone, estranei ai discorsi politici. L’egemonia non costituisce solo una direzione politica e morale sui settori popolari subalterni e sui popoli oppressi, ma anche una struttura di sentimenti che si ricrea quotidianamente nelle sfere più intime della soggettività popolare.
Per questo la riflessione di Antonio Gramsci diventa così efficace quando si tratta di pensare ai meccanismi predominanti a cui fa appello il capitalismo recente, imperialista e neocoloniale nel XXI secolo.
La diffusione in tutto il mondo, e in particolare nella Nostra America, della tristemente famosa american way of life non si realizza solo con grandi ipotesi e teorie, né con sistemi formali di idee. Nemmeno con un editoriale in un giornale ufficiale, sia esso il Washington Post o il Miami Herald. Si ottiene attraverso film romantici e d’azione, attraverso la musica, l’abbigliamento e i gusti personali, indotti attraverso il marketing e tutta un’ingegneria della propaganda che opera nel campo dell’inconscio collettivo, prostituendo anche le migliori scoperte di Freud. Tutto è soggetto a competizione e confronto! Anche le fantasie e i sogni più intimi. Il capitalismo non rispetta nulla, nemmeno le sfere più private dell’intimità che, per buon senso comune, dovrebbero restare fuori da qualsiasi disputa geopolitica, quando nella vita reale non è così.
Nel caso specifico di Cuba, l’immensa ragnatela di controinsurrezione che viene quotidianamente impiegata dalle istituzioni ufficiali o parastatali degli Stati Uniti, con una gigantesca quantità di denaro che viene rubato ai cittadini statunitensi e utilizzato per schiacciare ogni dissenso, ha perseguito e continua a cercare di sconfiggere le emozioni, i sentimenti e le fantasie del popolo cubano. Questa azione ha impiegato tutte le forme di lotta, facendo appello a diversi stili e combinando diverse modalità operative. Da quelli più violenti e terroristici, come bombardare un hotel turistico o far saltare in aria un aereo civile, a quelli più “innocenti” che ricorrono alla massificazione dei simboli nazionali nordamericani su magliette e sciarpe o alla promozione di musica commerciale di bassa qualità, coloniale, misogina e sessista.
L’obiettivo è quello di delegittimare la Rivoluzione Cubana mentre si cerca di vendere l’illusione fallace che la Florida sia “la nuova terra promessa”. Un posto relativamente vicino (90 miglia) dove si può facilmente diventare un “nordamericano” senza saper parlare inglese, giocando a domino a piedi nudi e in maglietta. Una presunta “utopia” a buon mercato, che riappare in mille film apparentemente “apolitici”.
Il vecchio “sogno americano” di grandi aspettative ed enormi promesse è ormai a brandelli. L’imperialismo statunitense fa acqua da tutte le parti. Sta vivendo una grave crisi umanitaria, con centinaia di migliaia di persone abbandonate e morte. Nessuno crede più alla storia del presunto “regno della Libertà”, in una società dove, senza Malcolm X e le Pantere Nere, a un semplice cittadino americano dalla pelle scura viene messo un ginocchio sul collo e viene lentamente assassinato davanti agli occhi del mondo, affinché la popolazione di origine africana e latinoamericana impari la lezione.
Nel momento in cui quel vecchio “sogno americano” ha perso la sua antica credibilità agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, è stato sostituito dal premio di consolazione della… Florida e di Miami, dove la cultura non brilla esattamente per la propria originalità. Se un secolo fa si cercava di vendere al popolo argentino Parigi come sogno immaginario della “capitale culturale” della modernità eurocentrica (ignorando l’imperialismo francese, genocida e torturatore in Indocina e Algeria), oggi si cerca di vendere al popolo cubano la Florida e Miami come “il migliore dei mondi possibili”. Una merce degradata e di quarta categoria, difficile da comprare anche in un mercatino delle pulci.
Le riflessioni di Gramsci ci permettono di smontare simili operazioni di guerra psicologica (come le chiamerebbero i teorici Karl von Clausewitz e Liddell Hart), di fabbricazione industriale del consenso (come la chiamerebbe Noam Chomsky) e di ricreazione quotidiana dell’egemonia, per usare la terminologia del marxista italiano.

D: Le pretese imperiali che cercano di minare l’egemonia socialista della Rivoluzione Cubana, utilizzando le loro stesse parole, hanno cercato di “creare artificialmente una ‘sinistra’ edulcorata e falsa – con tutte le virgolette del caso –, non rivoluzionaria, estranea e avversa all’inassimilabile eredità di Fidel Castro e Che Guevara”. Quanto è pericolosa questa falsa sinistra? E in che modo ha cercato di legittimarsi?
R: Dobbiamo riconoscere ai nostri nemici una certa dose di flessibilità. Per usare una metafora derivata dal calcio, l’imperialismo ha avuto una certa “cintura politica” (riferimento agli storici giocatori di calcio, come Messi, Maradona, Pelé o Garrincha, che fingono di andare a sinistra e poi spostano con abilità e grande flessibilità la vita [cintura] e dribblano l’avversario sulla destra).
La ricercatrice Frances Stonors Saunders ha dimostrato che la CIA, la più famosa delle istituzioni di controinsurrezione del mondo, anche se non l’unica o la prima, per sconfiggere i suoi nemici strategici (la Rivoluzione Cubana in primo luogo) si è permessa in molte occasioni di fare appello ad altre “sinistre” per delegittimare il paradigma rivoluzionario.
Per fare un parallelo pedagogico, succede quanto segue. Se si volesse ostacolare la predicazione della Chiesa Cattolica Romana, un nemico del cattolicesimo potrebbe mettere soldi, dare interviste, promuovere in televisione e nei mass media altre religioni che competono con la Chiesa Vaticana. Perché si crede in un altro Dio? No. Ma perché è molto facile distruggere il nemico opponendogli discorsi e correnti di pensiero apparentemente simili, che a prima vista sembrano appartenere alla stessa famiglia, quando in realtà lavorano in una direzione radicalmente opposta e antagonista.
Con il socialismo e il comunismo succede qualcosa di simile. Per distruggere il prestigio e l’attrattiva dei processi sociali emancipatori e distruggere il carisma dei loro principali leader, quale modo migliore che utilizzare certi discorsi apparentemente “progressisti”, ma che in fondo utilizzano tutte le loro armi per delegittimare e distruggere l’attrattiva popolare della tradizione anticapitalista e antimperialista.
Non è un caso che la CIA abbia impiegato Daniel Bell, un ex marxista, per promuovere la falsa tesi del “declino delle ideologie”. E non è nemmeno casuale che nei suoi progetti di penetrazione imperialista e di cooptazione degli intellettuali, l’Agenzia abbia finanziato – attraverso istituzioni paragovernative, che si presentano come se fossero la “società civile” anche se ricevono i loro grassi milioni sempre dallo Stato nordamericano – vecchi sociologi ex marxisti in progetti di controinsurrezione. Nessuno è più utile all’imperialismo di una persona rinnegata e convertita. Perché i convertiti hanno bisogno di presentare il conto ogni giorno per dimostrare che non sono più quelli di una volta. E così diventano i militanti più entusiasti delle cause controrivoluzionarie.
Nella Nostra America abbiamo assistito negli ultimi decenni alla proliferazione di attacchi e campagne sistematiche contro tutti i processi con obiettivi di emancipazione (anche senza essere marxisti, comunisti o socialisti, ma anche solo con aspirazioni di cambiamento graduale) portati avanti in nome di… ecologismo!… teorie post-coloniali!… repubblicanesimo “socialista”!… “femminismo” liberale! e vari altri discorsi e corollari che a prima vista sembrano appartenere alla stessa famiglia rivoluzionaria, ma quando avviene un colpo di Stato come quello organizzato dagli Stati Uniti in Bolivia nel novembre 2019 (con armi repressive fornite da governi di estrema destra come quello di Mauricio Macri in Argentina), vari esponenti di questi discorsi “progressisti” escono rapidamente allo scoperto per sostenere e giustificare il golpe.
Non è curioso? Quale autentica sinistra si unirebbe con tanta leggerezza a un colpo di Stato contro il movimento indigeno che perseguitava le donne quechua e aymara e bruciava in pubblico la bandiera dei popoli originari? Quando uno comincia a indagare sulle persone in questione, presunti “ecologisti-ambientalisti”, presunte “femministe postcoloniali”, “autonomisti situazionisti”, che hanno sostenuto apertamente e automaticamente il colpo di Stato contro Evo Morales e Álvaro García Linera, cosa trova? Che tutti e tutte loro, invariabilmente, avevano precedentemente ricevuto borse di studio Guggenheim, “aiuti disinteressati” dalla Fondazione Ford, “stage accademici” a Gringolandia e altre schifezze della stessa risma.
Nel caso dei “progressisti” che sono diventati improvvisamente antichavisti e antibolivariani, è successa esattamente la stessa cosa. Appaiono sempre gli stessi soldini che fanno capolino con la punta delle banconote dalle tasche di questa “sinistra” esotica, che non è sinistra, e che ha funzionato e funziona tuttora come il cavallo di Troia dell’imperialismo. Il presunto “progressismo” cubano, con i soldi della Fondazione di Soros e della Fondazione Ebert nei suoi conti bancari o sotto il materasso, non è l’eccezione. Tutto il contrario. Conferma la regola!
Naturalmente, quando vengono smascherati gridano, provano a passare da vittime, si pongono nel ruolo di “incompresi” o “perseguitati”. Vorrebbero evitare di pagare un costo politico per essersi messi al servizio dell’impero e riuscire a vivere di quel denaro sporco. Poveretti! Non sanno che l’imperialismo li usa per un po’ di tempo e poi li scarta. Roma (e Washington) non hanno rispetto per i disertori né per le persone convertite. Li usano e li gettano poco tempo dopo nella pattumiera. Vivono i loro cinque minuti di fama. Comprano un appartamento e qualche oggetto prezioso, fanno tre o quattro viaggi di lusso, visitano un paio di università prestigiose (credendo di essere invitati perché sono “brillanti” e di concorrere per il premio Nobel). Ma quando non sono più utili, escono automaticamente di scena e finiscono le loro vite in modo triste e mediocre, perché hanno rinnegato la propria identità e la propria storia.
Il caso emblematico dell’intellettuale cubano Jesús Díaz è da manuale. Era stato brillante ed è finito triste e solo. Oggi ne proliferano altri di minor valore che non raggiungono nemmeno il livello di Jesús Díaz, che ha coronato il suo percorso rinnegando il proprio stesso lavoro e facendo da pedina servile del PSOE spagnolo, la socialdemocrazia della NATO.

D: Lei parla di una dissidenza cubana che si atteggia come “socialdemocratica” e “repubblicana”. Perché scegliere questi termini per definirle? Quali trappole possono nascondersi dietro questi aggettivi?
R: La nazione cubana, forgiata nella lotta contro il colonialismo spagnolo e il nascente imperialismo statunitense, ha vissuto molte rivoluzioni. Quella che trionfa nel 1959 è la più famosa, ma non è la prima né l’unica. Quando Fidel Castro e Che Guevara non erano ancora andati alle elementari, altre rivoluzioni avevano già avuto luogo sull’isola. Pertanto, la Rivoluzione Cubana che rovescia la dittatura all’inizio del 1959 si nutre di questa ricchissima storia politica e culturale precedente. Non è mai stata uniforme. È stata eterogenea dalla sua origine fino al giorno d’oggi.
La leadership di Fidel – seguendo gli insegnamenti di José Martí – riuscì ad amalgamare questa diversità di affluenti e tradizioni che nel bel mezzo di un’offensiva imperialista – compresa un’invasione militare sconfitta, dove l’impero di Monroe e Adams fu umiliato davanti a una piccola Isola irriverente – finirono per formare un’organizzazione comunista.
Questo nuovo comunismo cubano degli anni Sessanta, rivendicando con orgoglio l’eredità insurrezionale di Lenin, non fu mai una copia carbone delle esperienze dell’Europa dell’Est. Le palme cubane non sono mai state coperte di neve. In questo comunismo confluirono, si amalgamarono e persino arrivarono a fondersi dalle correnti nazionaliste rivoluzionarie, passando per le tendenze cristiane rivoluzionarie, fino alle vecchie organizzazioni comuniste più tradizionali, con una storia precedente alla leadership di Fidel (ricevendo l’appoggio delle religioni di origine afrodiscendente, ignorate e disprezzate dalla Chiesa ufficiale dell’epoca). Da qui l’enorme ricchezza e il potente fascino di una rivoluzione che convoca l’intero universo rivoluzionario senza dogmi preconcetti né paraocchi settari.
I piccolissimi nuclei che oggi cercano di vendersi come una “nuova sinistra” attraverso un formato “socialdemocratico” e “repubblicano” alla fiera delle ideologie, stanno cercando di smantellare questa lunga accumulazione politico-culturale delle masse pazientemente costruita da Fidel. E li descriviamo come “piccolissimi nuclei” perché sono davvero microscopici, e non sono nemmeno riusciti a formare un’organizzazione solida, con un programma unitario, un’ideologia coerente, una leadership di massa. Parliamo chiaramente. Tre blog e due siti web sono volatili ed effimeri come una nuvola nel mezzo di una tempesta caraibica, anche se possono contare su un sacco di soldi provenienti dagli Stati Uniti e dalla Germania, e sulla propaganda dalla Florida.
Non se la sentono di attaccare Fidel per nome e cognome semplicemente perché – se posso usare un’espressione argentina – non hanno il coraggio [no les da el cuero]. Vale a dire, non gli basta la benzina. Non hanno la schiena. Ma è chiaro che il loro obiettivo è abbattere tutto ciò che Fidel ha insegnato (non solo nei suoi infiniti e chilometrici discorsi, ma nella sua pratica politica).
Poiché Fidel, a differenza di Stalin o di altri leader lontani, non ha lasciato monumenti magniloquenti né città intitolate a lui né niente di simile… è difficile attaccarlo! Quale statua di Fidel cercheranno di demolire se Fidel non ha lasciato statue e ha dato questa indicazione nei suoi ultimi giorni di vita? Quindi l’operazione risulta loro più complicata e difficile. Ma il loro tentativo subdolo, a malapena celato e piuttosto maldestro, consiste fondamentalmente in questo: (a) smembrare l’unità della diversità raggiunta sotto la guida di Fidel; (b) all’interno di quell’arcobaleno rivoluzionario che a Cuba ha assunto il nome di “comunismo”, ma che racchiude molti universi culturali diversi, intendono, con un maccartismo molto difficile da nascondere, fare appello al coltello e al bisturi per dissezionare, estirpando alla radice tutto ciò che profuma di comunista e gettandolo nella latrina; (c) all’interno di questa galassia multiforme che Fidel è riuscito a raggruppare, scelgono di mettere in evidenza le fazioni politicamente più moderate e timorose, quelle che negli anni Sessanta subirono l’egemonia delle posizioni più radicali di Fidel, Raúl e Che Guevara; (d) arrivati a questo punto, cercano di fare un salto ancora più audace: pretendono di far rivivere tutto ciò che esisteva prima del trionfo rivoluzionario del 1959, idealizzando la repubblica (rifiutano di riconoscere il carattere neocoloniale di quella repubblica, lo mascherano e lo coprono, affermando ingannevolmente che sognano una “repubblica” sociale sullo stile dei paesi nordici, ma al di sotto del vestito, si vede bene il filo); (e) nell’idealizzare il mondo precedente al 1959, non ritornano a Mella e Guiteras, antimperialisti radicali (che non avrebbero mai accettato una banconota yankee!), sostenitori della rivoluzione socialista e della lotta armata, ma si fermano alla Costituzione del 1940 come una presunta “panacea” giuridica che avrebbe risolto magicamente tutti i mali, le carenze, la mancanza di cibo, di petrolio e di siringhe, risultati del blocco ormai sessantennale; (f) in tutto questo tentativo di sezionare e disarticolare il progetto unificante, antimperialista e anticapitalista, condensato sotto il simbolo di Fidel (anche se in realtà è sempre stato ed è tuttora un processo collettivo, dato che “Fidel” è il nome con cui si è conosciuto a livello mondiale un processo collettivo e di massa), negano il ruolo dell’imperialismo nelle difficoltà quotidiane del sistema politico e sociale cubano.
Perché omettono il blocco, cercando di ridimensionarlo e banalizzarlo? Perché questi piccolissimi nuclei “repubblicani” e liberali, pur spacciandosi per eruditi e molto colti, negano la teoria dell’imperialismo e la teoria marxista della dipendenza. Poiché le loro elaborazioni sono di solito piuttosto deboli e sfilacciate, con una buona dose di plagio dall’eurocomunismo spagnolo e dal social-liberalismo italiano, non hanno formulato un rifiuto esplicito della teoria dell’imperialismo e della teoria marxista della dipendenza. Non l’hanno formulato semplicemente perché mancano di sistematicità. Montano e smontano discorsi secondo l’occasione e a seconda dei loro sponsor (o “mecenati”, come preferite). Ma in pratica, ignorando il ruolo predominante, condizionante e determinante del blocco statunitense, hanno abbandonato (e rinnegato) la teoria dell’imperialismo.
Se fossero più coerenti, più formati a livello teorico e più sistematici, questi esotici esponenti del “repubblicanesimo socialdemocratico” cubano dovrebbero fare una critica dettagliata e fondata contro la teoria dell’imperialismo (che Lenin si mise a costruire dal 1893 al 1916 e che oggi è stata aggiornata da John Smith fino a Andy Higginbottom, per non fare un elenco troppo lungo di teoriche e teorici contemporanei). Non si sono nemmeno presi il disturbo! Perché per fare una tale critica dovrebbero investire anni di studio, e quello di cui hanno bisogno, così come i loro sponsor e mecenati, sono risultati rapidi e immediati. Qui e ora! Per questo non raggiungono nemmeno quel livello di elaborazione.
Perciò, questa esotica “socialdemocrazia repubblicana” ha molto più del marketing e della controinsurrezione mediatica che di una teoria elaborata e un programma politico realistico e serio. È un’accozzaglia eclettica che prende un po’ di qua e un po’ di là, facendo un’insalata senza molto rigore teorico-politico e con la mente rivolta all’impatto che ogni dichiarazione potrebbe avere a Miami e Madrid. È un discorso di circostanza.
Oggi si vendono in questo formato “epubblicano”, ma domani possono presentarne un altro. Senza alcun problema! A seconda di come sono quotate le azioni di coloro che sponsorizzano, proteggono, promuovono e diffondono questi personaggi che, purtroppo, si lasciano usare. Ho il sospetto che tra un po’ saranno liquidati senza molti riguardi. Francamente, un vero peccato. Perché a quel punto, quando l’impero li scarterà, non potranno tornare indietro. Hanno già perso il rispetto rivoluzionario e dubito che lo tornino a conquistare.

D: Accenna con evidente dolore al fatto che persone amiche, preziose e amabili sono ora legate a questa controinsurrezione “soft”. Quale potrebbe essere la ragione di questo cambiamento nel modo di agire, pensare e militare? Può essere un livello di pensiero critico onesto che non siamo capaci di assimilare?
R: Questa è la domanda da un milione di dollari! Non ho una sfera di cristallo. Né credo nei tarocchi. Ho il sospetto che si siano sommate varie circostanze. Un’enorme quantità di egocentrismo e narcisismo, desiderio di apparire, una sensazione diffusa che “ora è il mio tempo e nessuno me lo porterà via”.
Quelli come noi che hanno scelto un percorso di vita dalla giovane età hanno sempre saputo e continuano a sapere che siamo solo militanti di base. Che nessuno è insostituibile. Che nei grandi e prolungati scontri popolari, noi militanti aggiungiamo il nostro granello di sabbia e basta. Questo ti garantisce una serenità spirituale perché non aspiri a essere “la star”. Ma bene, siamo stati fortunati, perché nel nostro caso abbiamo imparato da genitori che erano già militanti e, essendo riusciti a sfuggire alle minacce di assassinio e sparizione del generale Videla, ci hanno sempre insegnato questo. Siamo piccole foglie nel grande tornado della rivoluzione, come disse una volta, parola più parola meno, un Liberatore dell’inizio del XIX secolo.
D’altra parte, se crediamo che “è arrivato il nostro momento”, “ora arriva il cambiamento e voglio un posto di rilievo”, ci sbagliamo. Il nemico conosce le debolezze di ogni persona. Ci studia con la lente d’ingrandimento e il microscopio. Qualcuno ha un debole per il denaro o per i beni di consumo di lusso. Qualcun altro è sedotto da chi ha molta bellezza e sensualità. Qualcun altro muore dietro alle luci della ribalta e alla “fama”. Quanti talloni d’Achille! Il nemico studia con pazienza e li classifica uno per uno. E agisce sulle debolezze personali di ognuno. E comincia a operare al momento opportuno. A chi vuole disperatamente essere al centro della scena, offriranno un ruolo di rilievo. Lo inviteranno, lo faranno sfilare e “sentire importante”. Non gli daranno i soldi al primo incontro, non sono stupidi. Sono pazienti. Lasciano che il cibo si cuocia lentamente. Lavorano a lungo termine.
Il nemico mescolerà la seduzione intellettuale e una remunerazione adeguata (proprio in un’epoca di grandi necessità economiche per le classi popolari!), l’“offerta altruista e senza chiedere nulla in cambio” di un sito web pagato “per dire quello che vuoi” (ma sapendo che certe cose devono essere dette… e altre non devono essere dette… perché altrimenti i finanziamenti del sito finiscono).
Oltre a tutto questo, probabilmente c’è stata qualche ottusità da parte di alcune autorità competenti, qualche funzionario che non lo ha trattato con sufficiente rispetto e questo ha generato risentimenti (il nemico lo sa, lo studia e ne approfitta).
E mettendo insieme queste molteplici circostanze, queste svolte politiche avvengono in un momento storico in cui le idee rivoluzionarie e i progetti socialisti e comunisti non sono egemoni. Credo che non ci sia a proposito una spiegazione univoca, ma piuttosto un accumulo di molteplici fattori condizionanti.
Ma se una persona è rivoluzionaria e completamente sicura di sé, per quante discussioni ci possano essere con un funzionario, per quanti bisogni materiali possa avere, non accetterebbe mai la mela avvelenata del nemico. Faccio appello a un nome che spiega tutto nel caso cubano. Fernando Martínez Heredia. È morto come è vissuto: in piedi. Senza mai cedere mezzo millimetro. Ebbe molte discussioni. Aveva dei bisogni materiali nella sua vita quotidiana (ricordo il suo bagno, la sua cucina, i suoi vestiti). Ma se mai gli è stata offerta una mela avvelenata, sono sicurissimo che l’avrà sputata. Un maestro!
In Argentina ho conosciuto molta gente simile, compreso mio padre, che è morto facendo tre lavori contemporaneamente. Non umiliandosi mai e rifiutando incarichi molto importanti per non tradire gli insegnamenti del Che e di Fidel, che insieme ammiravamo e amavamo.
Ognuno sceglie la propria strada nella vita. Che se ne prenda la responsabilità. E che non si lamenti poi, se decide di mordere la mela avvelenata, che gli venga “uccisa la reputazione”, cioè che sia criticato per aver lavorato fianco a fianco con il nemico. L’espressione “assassinio della reputazione” (asesinato de reputación) mi sembra una buffonata. Una mancanza di rispetto per le nostre migliaia e migliaia di persone uccise nella vita reale.

D: Uno dei titoli di capitolo del suo libro “La penna e il dollaro” (“La pluma y el dólar”) è “La CIA e le scienze sociali”. A Cuba si sta verificando un fenomeno interessante: giornalisti, intellettuali, scienziati sociali e artisti negano di ricevere sostegno dall’Agenzia – che ha un passato così sanguinario che nessuno può ammettere con orgoglio di ricevere i suoi fondi -; ammettono invece di essere dipendenti stipendiati di alcune ONG, i cui legami con la CIA sono stati rivelati in varie occasioni.
R: Non spetta a me dare lezioni al popolo cubano. Ma se questo accade, c’è evidentemente una crisi ideologica. E aggiungerei: un disarmo morale (come lo chiamerebbe Karl von Clausewitz). Ci si può lavorare in molti luoghi. La storia della classe operaia è la storia del lavoro in luoghi scomodi. O forse gli operai amano costruire automobili per un imprenditore milionario, rinunciando a parte della loro vita per farlo? Ma ci sono dei limiti, non è così? Chi perde questi limiti ha perso la bussola della sua vita. Può succedere a chiunque. Ma almeno questo. Che non pretenda di farlo con leggerezza e con una faccia da “buon compleanno”. Chi prende la decisione di lavorare per le operazioni di facciata culturali della CIA, se ne assuma la responsabilità. Il nemico gli darà una pacca sulla spalla. E gli regalerà dei sorrisi. Ma il campo rivoluzionario, come minimo, lo criticherà. Ci si può stupire di tali critiche? Ciò implica che abbiamo a che fare con un “regime totalitario” perché si critica chi collabora con l’imperialismo in cambio di denaro? Che terribile sfacciataggine! Chiunque attraversi lo stagno, chi morde la mela avvelenata, pagherà un costo politico. Rendere naturale il tradimento come se fosse qualcosa di normale e quotidiano non è sinonimo di “libertà” e “pluralismo”. Tutto il contrario. È pura perversione. Non dobbiamo abituarci alla perversione. La cosa più sana da fare è rifiutarla e combatterla. Non c’è bisogno di ricorrere a Lenin e ai bolscevichi. Non c’è bisogno di ricordare Fidel e il Che. Semplicemente sulla base di Sigmund Freud, che non era né socialista né comunista, mi spingo a rispondere: non abituiamoci né consideriamo normale la perversione!

D: Nel suo libro vengono citati piuttosto di frequente media privati che, da Cuba o dall’estero, sostengono un discorso di scontro dialettico con il governo cubano; alcuni si definiscono “media indipendenti”. Come lettore straniero e allo stesso tempo conoscitore della realtà cubana, qual è la sua opinione sul modo in cui questi media costruiscono il tema di Cuba?
R: Ho lavorato tutta la mia vita, da quando ero un ragazzino; la maggior parte di questo lavoro è stato legato all’istruzione pubblica. Tuttavia, per otto anni ho lavorato per il giornale argentino Clarín, nel suo supplemento culturale, recensendo i libri. Questo è il principale giornale di destra in Argentina. Ho avuto l’onore di partecipare a scioperi sindacali e ad assemblee di massa di lavoratori e lavoratrici contro i padroni del Clarín. Alcuni ex colleghi usavano l’espressione “noi, Clarín”. Ho sempre fatto riferimento a “loro”. Ho imparato molto in questi anni da “giornalista”. Per tutta la mia vita il Clarín si è presentato, e lo fa ancora oggi, come “giornalismo indipendente”. Scrivo questo e mi scappa una risata. Indipendente? per favore! Non esiste il giornalismo indipendente. È l’ABC della professione. Ricordo di aver studiato quando ero molto giovane un formidabile libro di un compagno cileno, Camilo Taufic: Giornalismo e lotta di classe. “Informare è comandare”, spiegava questo teorico che non solo conosceva il mondo della stampa, ma era anche un esperto di comunicazione e cibernetica. Vi consiglio di leggere questo libro, che è disponibile gratuitamente su internet.
Come parte dei loro compiti di controinsurrezione, varie agenzie statali statunitensi (sempre presentate come parti della “società civile” [risate dal coro]) hanno cercato per anni di demonizzare il governo della Rivoluzione Cubana. Tutto ciò che appaia un mezzo di comunicazione legato alle istituzioni rivoluzionarie viene automaticamente – qualunque cosa dica, anche se spiega come cucinare una zuppa – equiparato alla materia fecale. D’altra parte, tutto ciò che viene detto da questi media che non appartengono allo Stato cubano, anche se appartengono ad altri Stati che li finanziano, appare “credibile” nella grande maggioranza (non proprio tutti, ma nella grande maggioranza).
Ci sono voluti decenni per costruire questa narrazione. La vecchia Radio Martí non fa che strappare risate e battute ironiche. Grezza, maccartista, colonialista. Tuttavia, in questa nuova fase di controinsurrezione, l’impero di Monroe e Adams è riuscito a fare un piccolo passo avanti, demonizzando la stampa legata alla Rivoluzione, utilizzando a tal fine la dittatura dell’algoritmo e le reti di comunicazione delle quali sono proprietari e amministratori.
Forse, non lo so, ma ho il sospetto che un errore importante possa essere consistito nel mantenere una certa fossilizzazione all’interno della stampa e della televisione legata al governo cubano, che ha contribuito indirettamente alla perdita di fiducia della popolazione. Una cosa che si può invertire con intelligenza e lucidità! Ricordo di aver visto i notiziari dell’ICAIC sulla vita quotidiana cubana prodotti da Santiago Álvarez, che erano l’opposto dell’inerzia e di un discorso incentrato su slogan formali.
Credo che una delle enormi sfide che ha davanti a sé la nuova generazione della Rivoluzione Cubana sia ricreare lo spirito critico di Santiago Álvarez nella stampa governativa. Che si discutano lì i problemi reali della popolazione. Che non si nasconda niente. Se si riprende il cammino rivoluzionario, originale e creativo dei notiziari di Santiago Álvarez, questi media cosiddetti “indipendenti” (blog, siti web, ecc.), finanziati direttamente dalla controrivoluzione e dalla controinsurrezione dell’imperialismo, perderanno sicuramente il loro appeal e faranno la fine di Radio Martí, nella derisione popolare e nel disprezzo di fronte a un anticomunismo galoppante e malato.

D: Quanto sono in sintonia i discorsi di questi media “indipendenti” con quelli degli intellettuali legati alla controinsurrezione “soft”?
R: Non vivo a Cuba. Non ho né il tempo né il modo per seguire nel dettaglio ognuno di questi media pseudo “indipendenti”, che di per sé mi sembrano talvolta troppo ingenui, esageratamente rozzi, e sebbene vogliano mostrare profondità e persino sarcasmo (contro la Rivoluzione) mi annoiano per la loro scarsa formazione politica.
Parlano di “dittatura”, “totalitarismo” e “repressione” con tale leggerezza che qualsiasi persona minimamente informata in un paese capitalista non può far altro che ridere. Non lo dico per offendere o per ferire. Ma mi fanno pena. Lo si nota da qui al pianeta Nettuno che non hanno mai sperimentato una seria repressione, e ancora meno una vera dittatura. Sembrano cose scritte da bambini viziati. Sono media che ingrandiscono e distorcono le notizie come i peggiori tabloid del mondo capitalista.
Esempio concreto. Le persone morte per il COVID-19. Molti di questi media suggeriscono che le autorità ora al comando della Rivoluzione Cubana hanno perso il controllo e tutto è nel caos. Poco tempo fa ho scritto a un amico cubano confrontando il numero di persone morte in Argentina e a Cuba a causa della pandemia. Dato che l’Argentina ha quattro volte la popolazione di Cuba, si dovrebbe moltiplicare per quattro il numero di persone che sono morte sull’Isola per poter fare un confronto. I dati che ho confrontato sono del 26 luglio 2021, l’Argentina aveva 104.000 morti; Cuba, invece, aveva 2.417 morti alla stessa data. Dato che la popolazione cubana è quattro volte più piccola di quella dell’Argentina, bisognerebbe moltiplicare per quattro le persone morte a Cuba.
Quindi, scrissi in quella lettera al mio amico cubano:
Se moltiplichiamo 2.417 per quattro, si arriverebbe a 9.668 morti cubani. Anche se è doloroso, perché ogni singola vita vale tutto, potremmo arrotondare statisticamente che Cuba avrebbe dovuto avere 10.000 morti a quella data, e anche così l’Argentina aveva dieci volte quel numero. Un semplice confronto in termini relativi e non assoluti. I cosiddetti “media indipendenti” non hanno mai fatto questo tipo di esercizio d’informazione. La presunta “mancanza di controllo” sull’isola, rispetto a un paese capitalista (dipendente) di medio sviluppo, come l’Argentina, non ha retto due secondi. Era un’assoluta falsità. Pura e semplice manipolazione.
Per quanto riguarda il campo intellettuale cubano, non credo che sia omogeneo oggi, perché non lo è mai stato. Lo so perché nel 1993 ho intervistato Fernando Martínez Heredia (casualmente nel bel mezzo di un blackout durante il “periodo speciale”) e da lui ho imparato molto rapidamente che non c’è mai stata quella falsa unanimità “totalitaria” che oggi si attribuisce alla società cubana (“il regime”, come amano scrivere a Miami, mentre chiamano “democrazia repubblicana” un paese come gli Stati Uniti che ha abolito la schiavitù 60 anni dopo Haiti, 50 anni dopo Simón Bolívar, e che ancora oggi tollera la tortura come qualcosa di “normale” – basta guardare i film di Hollywood – e che ammette sfilate neonaziste e suprematiste nel Campidoglio degli Stati Uniti senza arrossire di vergogna).
Poiché non c’è omogeneità, credo che i settori intellettuali cooptati dall’impero siano una piccola minoranza. Rumorosa, perché ha sempre avuto il privilegio di viaggiare all’estero e grazie a questo privilegio (e alle relazioni internazionali) sa farsi notare. Ma né in termini quantitativi né in termini qualitativi penso che rappresenti qualcosa di sostanziale. Per questo oggi è urgente abbandonare qualsiasi complesso d’inferiorità e andare a rispondere a questa gente che ha perso la strada, che ha perso la bussola e oggi non sa come riadattarsi in questo mondo capitalista in crisi acuta.
Ripetono slogan della guerra fredda, fuori dal tempo. Pretendono di far rivivere l’ideologia dell’“antitotalitarismo” nata sotto il maccartismo, dalla penna di Hannah Arendt, che in 600 pagine pretende di accomunare comunismo e nazismo e dedica solo due righe – due righe! – in una nota a pie’ di pagina nascosta al maccartismo, che perseguitò gli artisti, promosse la delazione, fece liste di “persone proibite”, coltivò antisemitismo e misoginia. Una pietosa capitolazione. Il “pedaggio” che Hannah Arendt dovette pagare per essere lasciata sopravvivere nell’Accademia americana, che di pluralista non ha niente.
Basta leggere la corrispondenza privata di Charles Wright Mills con la sua famiglia e il modo in cui visse nella paura, sorvegliato tutto il tempo dall’FBI per il suo sostegno alla Rivoluzione Cubana. E Wright Mills era un’“autorità” nel campo sociologico. Eppure ha dovuto dormire con una pistola nel suo comodino per paura di essere assassinato. Di che tipo di “pluralismo” stanno parlando? Ma far rivivere oggi quelle vecchie dottrine “antitotalitarie” concepite settant’anni fa, in pieno furore maccartista, risulta patetico.
Questi pochi intellettuali cubani che fanno appello a questi argomenti anticomunisti hanno altissime probabilità di fare la fine di François Furet e Ernst Nolte, che hanno relativizzato i crimini nazisti, lasciandosi sospingere dal loro anticomunismo viscerale. Ma nel caso cubano, ognuno di questi comportamenti sarà invariabilmente accompagnato da un carattere neocoloniale, perché nessuna persona sana di mente può ignorare l’onnipresenza degli Stati Uniti in ognuno di questi dibattiti.
Se si riuscirà a formare una “socialdemocrazia” cubana – cosa sulla quale ho seri dubbi – non assomiglierà a quella svedese o norvegese. Avrà l’inconfondibile impronta di Porto Rico (non del Porto Rico eroico che lotta da molto tempo per la sua indipendenza, ma del Porto Rico ufficiale, strisciante, servile e sottomesso al padrone imperiale).
Per mano dell’imperialismo e dei suoi sporchi finanziamenti, non ci sono possibilità di “terze vie”, promosse un paio di decenni fa in Europa da Anthony Giddens e altri sociologi di dubbio lignaggio. Accanto al recinto del padrone imperiale e all’ombra dei suoi alberi, coloro che rinnegano la lotta nazionale antimperialista e i progetti che hanno tentato con maggiore o minore successo di avviare la transizione al socialismo, finiranno per umiliarsi senza vergogna né gloria.

D: Perché questo libro? Perché adesso?
R: Per metodo, io non scrivo libri in maniera “spontanea”. Li pianifico. Mi pongo dei problemi, formulo una serie di domande, cerco tutta la bibliografia possibile, la studio nel dettaglio, più e più volte, scrivo delle bozze, le lascio “riposare”, le riscrivo, torno alla bibliografia, trovo nuove fonti, e solo dopo un lungo processo pubblico un libro. Ma è così che succede quando ci si propone di affrontare un problema teorico a lungo termine. Alcuni libri mi hanno richiesto anni.
Nel caso di questo libro è successo qualcosa di diverso. Avevo fatto da un po’ di tempo ricerche sulla storia della controinsurrezione. Risalendo ai campi di concentramento attuati dai colonialisti spagnoli sull’isola cubana alla fine del XIX secolo e passando immediatamente alle dottrine naziste. Lì mi sono fermato non solo a studiare i “classici” nazisti come Hitler e Alfred Rosenberg, ma anche studi psicoanalitici (Wilhelm Reich, Erich Fromm) che cercavano di spiegare le ragioni per cui persone umili e persino segmenti della classe operaia si unirono ai nazisti.
Ho poi studiato la controinsurrezione francese attraverso alcuni dei suoi principali ideologi terroristi. In seguito sono passato alla controinsurrezione statunitense, erede dei nazisti e dei terroristi francesi (ho già studiato decenni fa i teorici della controinsurrezione genocida argentina). E mentre studiavo questa lunga e nauseante storia, mi sono “imbattuto” nell’affare San Isidro, nel testo “Articulación Plebeya” e via dicendo.
Questo mi ha costretto a rimandare (provvisoriamente) il mio libro pianificato. Ho fatto un salto nel tempo e ho iniziato a leggere i teorici attuali delle “rivoluzioni colorate”, dei “colpi di Stato morbidi” e del soft power. Questi studi mi hanno permesso di farmi un’idea di quello che stava succedendo a Cuba. Qualcosa che era già successo nel Venezuela bolivariano e anche nel colpo di Stato del novembre 2019 contro il governo indigeno della Bolivia (dove ero stato settimane prima del colpo di Stato). Cuba non era e non è un’eccezione. Anche se è così che viene presentata a Miami.
Discutere riguardo a Cuba come di un tema isolato ha connotazioni molto chiare. Presuppone un’astrazione completa di: (a) tutti i colpi di Stato (“duri” e “morbidi”) che hanno avuto luogo negli ultimi anni nel continente; (b) le varie strategie di controinsurrezione in ballo con il complesso militare-industriale statunitense, indipendentemente da chi dirige la Casa Bianca; (c) la crisi generale del sistema capitalista su scala globale.
Collocare metodologicamente i problemi sociali interni di Cuba all’interno di questo contesto dà senso a eventi apparentemente “inspiegabili”. Questa è la metodologia dialettica che ci ha insegnato Marx (dalle prime bozze del Capitale del 1857 in poi). A questo punto, cercare di isolare una formazione sociale dal sistema mondiale imperialista è una sciocchezza tipica degli ignoranti o dei mercenari.
D’altra parte, addossare la responsabilità esclusivamente e maliziosamente al governo della Rivoluzione Cubana, senza menzionare l’emergere di una crisi multidimensionale che è già planetaria, non è solo una falsità, ma manca completamente di serietà politica e intellettuale. A meno che le fonti di “informazione” non siano tre o quattro indigeribili opuscoli di Miami…
Fingere di ignorare il risorgere delle “nuove” destre filonaziste in Spagna, Francia, Germania e persino nel cuore degli Stati Uniti, e pensare che il mondo si limiti all’Avana, a Matanzas e a San Antonio de los Baños, come posso dirlo senza offendere? Diciamo che genera un debole e appena pietoso sorriso (per essere eleganti). Coprirsi gli occhi e le orecchie di fronte ai colpi mortali – attraverso la recrudescenza del blocco – che nel loro declino le istituzioni statali statunitensi nel loro insieme stanno facendo di fronte all’evidente perdita del loro ruolo privilegiato di potenza egemone e gendarme mondiale, difficilmente aiuta a spiegare il nostro tempo presente.
Ecco perché ho deciso di pubblicare questo libro su Egemonia e cultura in tempi di controinsurrezione “soft”. Per cercare di contestualizzare i dibattiti, smantellando la rete di falsità e manipolazioni che oggi vengono presentate in un formato apparentemente “repubblicano” e “socialdemocratico” ma che, in fondo, tentano di smembrare i fili pazientemente tessuti da Fidel in funzione dell’egemonia socialista e dell’irrinunciabile difesa della sovranità cubana (e della Nostra America) di fronte all’imperialismo statunitense.

Scaricate il libro qui

Articolo originale: Hegemonía y cultura en tiempos de contrainsurgencia “soft”.
(prima pubblicazione: Contexto Latinoamericano, www.contextolatinoamericano.com)