Il sogno di Fidel

Un libro che una cara amica ha ritrovato, nascosto nella biblioteca personale di una zia che era andata da tempo a vivere lontano, e che poi mi ha donato. La prima edizione (del 1989, chissà se ce ne sono state altre?) della versione italiana di un testo originale di Lionel Martin del 1978 dal titolo The early Fidel, tradotto con Il sogno di Fidel. Una bella sopresa per almeno un paio di motivi: perché come libro in sé si tratta con ogni probabilità di una rarità, e poi perché raro è anche il tema trattato, perché racconta di un giovane Fidel Castro “pre-Rivoluzione”.

Di biografie di Fidel Castro, sul suo pensiero e sulle sue gesta, a partire dal momento in cui la Rivoluzione cubana si impose sul governo di Batista che obbediva alle logiche da protettorato statunitense, son pieni gli scaffali delle librerie e delle biblioteche, ma non è facile, invece, trovare documenti che facciano luce sul percorso di maturazione personale e storica di quel giovane barbudo prima che “diventasse” Fidel Castro.

Lionel Martin, giornalista e scrittore inglese, è stato un testimone in presa diretta delle vicende di Fidel dagli anni dell’università fino alla vittoria della guerra di guerriglia da lui progettata e condotta, e dello sviluppo della sua ideologia. Considerato il decano dei giornalisti stranieri all’Avana, è stato corrispondente della ABC, della CBC, del Washington Post e dell’agenzia Reuter, e ha accompagnato Castro nelle sue visite alle realtà produttive cubane, nelle aziende agricole e manifatturiere, nelle scuole e anche negli scenari delle sue azioni di guerriglia in montagna. Ha assistito agli interrogatori da lui condotti ai prigionieri dopo l’invasione di Baia dei Porci, ed era presente quando Fidel annunciò commosso al popolo cubano la morte del Che in Bolivia.

«A trentadue anni» dice Lionel Martin, «Fidel ha realizzato il suo sogno: il Trionfo della Rivoluzione da un capo all’altro del suo Paese».

Le questioni che Martin indaga certamente con più attenzione sono: in quale momento Castro “diventò comunista”, e se abbia mai dichiarato, prima di quel fatidico 1° gennaio 1959, la sua vicinanza alle teorie marxiste.

Secondo la storiografia più consolidata, Fidel sarebbe “diventato comunista” – oppure avrebbe per la prima volta dichiarato il carattere socialista della Rivoluzione – solo in seguito alla fallita invasione da parte dei mercenari statunitensi, quando si “arroccò” mettendo in atto una lunga serie di provvedimenti tra cui i più importanti furono certamente la nazionalizzazione delle imprese nordamericane, raccontati quasi come si fosse trattato di “rappresaglie”.

Secondo Martin, è davvero strano che molti storiografi non abbiano preso in considerazione quanto Castro affermò già nella sua famosa memoria giudiziaria del 1953, quella diventata famosa per la sua chiosa “La Storia mi assolverà”.

L’analisi di quella memoria, e in particolare di quella parte che affronta la questione della legittimità della Rivoluzione, ci offre dati importantissimi circa la filosofia politica di Fidel a quel tempo, e costituisce un importante elemento per la comprensione del suo sviluppo ideologico.

Scrive Fidel: “Non basta che i ribelli proclamino ora che la Rivoluzione è fonte di diritto se invece di rivoluzione si ha soltanto una restaurazione, se invece di progresso si ha soltanto regresso, e invece di ordine e giustizia si ha solo barbarie e forza bruta. Non hanno presentato un programma rivoluzionario, né il golpe è stato preceduto da un discorso pubblico e rivoluzionario: politicanti senza alcuna presa politica hanno dato l’assalto al potere. Senza un nuovo concetto di Stato, di società e di ordinamento giuridico basati su principi storici e filosofici non si può parlare di rivoluzione che dà origine al diritto”.

È estremamente interessante il principio delineato da Fidel Castro secondo cui se la rivoluzione è autentica e supportata da una visione e un programma capaci di generare diritti, allora si può considerare legittima: la rivoluzione non è un mero rovesciamento di un governo e la sostituzione con un altro, ma deve implicare un progresso, deve avere l’appoggio del popolo, deve proporre un nuovo concetto di Stato, di società e di ordine pubblico basati su principi storici e filosofici validi.

La questione della legittimazione di un cambiamento rivoluzionario è stata al centro dell’impegno di tanti filosofi che tra il XVII e il XVIII secolo contestarono l’origine divina della monarchia a favore della rivoluzione borghese. Anche Marx legittimava il cambiamento rivoluzionario, e in questo si potrebbe dunque rinvenire una certa vicinanza ideologica da parte di Fidel alla visione del filosofo di Treviri.

A dispetto di alcuni passaggi a tinte decisamente forti contenuti nel suo documento, come ad esempio quello dove dice “Ci saranno altri Mella ad affrontare il tiranno” (Mella fu tra i fondatori del Partito Comunista Cubano nel 1925 e morì assassinato nel 1929), l’interpretazione dei veri obiettivi di Fidel è a tutti gli effetti complicata da una sorta di sua “riluttanza” a parlare di “rivoluzione socialista”, un termine che sembra considerare “proibito” anche se, con grandissima probabilità, per mere ragioni di ordine tattico dal momento che in tutte le sue argomentazioni si è sempre potuta leggere una chiara disposizione all’apertura e all’assenza di pregiudizi. Proviamo a spiegare questa cosa.

Il piano che Fidel aveva in mente non prevedeva una vittoria o la presa del potere dalla sera alla mattina. Il regime di Batista si reggeva sulla forza e Castro si rendeva perfettamente conto che sarebbe stato necessario lottare con gli stessi strumenti, ma il popolo cubano non era pronto per opporsi a un esercito che, seppur costituito da mercenari, era comunque disciplinato e tecnicamente preparato. C’è una frase, pronunciata da Raúl Castro in un suo discorso ai guerriglieri, che rende molto bene l’idea di cosa intendesse Fidel: “C’è bisogno di un motore piccolo che che aiuti il motore grande a mettersi in marcia”. In attesa che maturassero le condizioni per “l’innesco”, Fidel ripudiava la tattica del “putsch” che considerava controproducente, e procedeva per così dire con i piedi di piombo per aumentare i proseliti senza spaventare nessuno con annunci prematuri.

Secondo la tesi di Lionel Martin, Fidel Castro fece tutto il possibile per evitare che il suo Movimento venisse definito “rosso”. Se avesse rivelato le sue idee politiche non avrebbe fatto altro che isolarsi. Fidel si è sempre lasciato guidare dalla sua profonda conoscenza della realtà cubana, motivo per cui non ha mai fatto aperte dichiarazioni pubbliche di adesione al socialismo, e ha sempre perfino cercato di evitare l’argomento. Perché non si mostrò più esplicito circa i suoi stessi obiettivi? Lui stesso, anni dopo, ebbe occasione di rispondere: “Se lo avessi fatto, difficilmente avrei conquistato qualcuno. Il programma fu pensato per unire il popolo cubano contro il suo nemico più immediato, Batista. Fu scritto con l’accuratezza necessaria per esporre i punti fondamentali evitando impostazioni che potessero in qualche modo limitare il nostro stesso campo d’azione all’interno della Rivoluzione. Dovevamo operare in modo che il movimento coinvolgesse tutte le forze possibili, e il programma presentava la massima aspirazione possibile in quel dato momento date quelle condizioni oggettive”.

Castro aveva piena fiducia nel popolo cubano e ha sempre creduto che sarebbe stato possibile giungere ad una trasformazione radicale della società grazie allo sviluppo della lotta rivoluzionaria stessa che, con obiettivi determinati e concreti, avrebbe educato il popolo politicamente, perché gli obiettivi avrebbero coinciso con i suoi interessi vitali, e per questo sarebbe stato portato a confrontarsi contro i suoi sfruttatori”.

È da “La Storia mi assolverà” che le idee socialiste di Fidel emersero con chiarezza, quando alluse con disprezzo a chi “passa la vita parlando a sproposito di libertà delle industrie, garanzie dei capitali di investimento e della legge domanda-offerta”, oppure quando disse che “l’avvenire della nazione non può dipendere dall’interesse egoista di una dozzina di finanzieri”.

Nelle lettere dal carcere del 1953, nel periodo che intercorse tra l’arresto susseguente all’assalto al Moncada e il relativo processo, Fidel racconta di trascorrere il tempo leggendo le opere di Marx e Lenin. Con ogni probabilità queste lettere sono sconosciute a tutti quegli autori che sostengono che il lidér cubano abbia assunto una visione marxista solo nel 1959, dopo il Trionfo della Rivoluzione.

Nel suo libro, Lionel Martin dà poi molto spazio anche a un altro aspetto che evidentemente considera molto rilevante ai fini della comprensione del percorso di Fidel, cioè la fitta rete di relazioni e l’intreccio di alleanze ma anche di dissapori con le forze sociali e politiche che costituivano lo scenario cubano dell’epoca. Pur senza mai aderirvi del tutto, Fidel “nasce” politicamente all’interno dei movimenti studenteschi dell’università, poi si muove con abilità in mezzo ad alleanze e contrasti in seno al Partido Ortodoxo e, negli anni della guerra di guerriglia, stringe patti di solidarietà con i comunisti oppure si divincola con sapienza da chi mirava a fagocitarlo allo scopo di condizionare il forte ascendente che stava acquisendo tra le masse di lavoratori e contadini o di sfruttarne la forza d’urto.

La testimonianza di Martin, in definitiva, rafforza l’idea di Fidel come statista arguto e visionario, consapevole e determinato, e ne completa il profilo facendo luce su un periodo della sua vita – quello della maturazione politica che precedette la guerriglia – non completamente noto a tutti.

Luigi Mezzacappa

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