La mia Cuba

Intermezzo

E’ sera. Siamo stati al cinema oggi. Abbiamo fatto una passeggiata, così, per combattere la sedentarietà del nostro lavoro.
Ora siamo a letto per riposarci. Che bella camminata!
E’ un po’ che non ci capitava. Dal viaggio di nozze, Cuba. Sì, Cuba.
Mi ritorni in mente spesso, ultimamente. Come un segnalibro. Già, il dannato bisogno di tenere ben saldi i ricordi.
E allora, cosa faccio? Piazzo un segnalibro nel mezzo delle mie giornate. E come per magia mi ritrovo lì, a passeggiare per La Havana con la mia dolce metà, compagna di viaggio.
Mi ricordo dei vialoni afosi, della fiumana di gente che popolava le strade. Noi osserviamo. Li osserviamo. Vogliamo entrare nei loro occhi, capire, vedere, scoprire cosa si prova ad essere cubani. Cosa si prova ad abitare l’isola felice, ultimo baluardo di un mondo di valori che sembra essersi dissolto.
Sì, ci piace l’idea di poterci sentire come loro. E’ per questo che sorridiamo, che proviamo a comunicare attraverso il nostro Spagnolo stentato. E’ per questo che una giovane coppia ci avvicina. Fa le presentazioni del caso. Attacca bottone. Noi non aspettiamo altro.
Una coppia di coetanei da cui carpire una storia, un punto di vista.
Anche loro sembrano molto interessati alla nostra storia. E allora, inorgogliti, gli raccontiamo del nostro matrimonio e del nostro viaggio che ci apprestiamo ad intraprendere tra le strade della loro patria.
“Sì siamo insieme da tre anni.”
“Tre anni? Un’enormità per noi cubani. Noi non siamo sposati ma abbiamo una bimba piccola.”
Lo scambio prende piede e i nostri ospiti si improvvisano ciceroni e ci parlano di un concerto imperdibile, questa sera.
“Suonano i Buena Vista Social Club, celebrano l’anniversario della morte di Compay Segundo.”

Vogliono soldi, penso.
“Vi accompagniamo alla biglietteria.”
Vogliono soldi.
Facciamo i biglietti, 30 CUC a persona. L’equivalente di 30 euro a persona.
E dobbiamo ancora dare dei soldi a loro, rimugino.
Per lo meno, quella sera, scoprirò con piacere che l’ingresso includeva tre consumazioni.
“Ragazzi, grazie per averci accompagnato. A questo punto noi andremmo a berci qualcosa.”
“Ah sì? Dove andate? Magari vi portiamo noi in un posto tipico.”
A questo punto, è chiaro, toccherà pagar loro da bere, ma per lo meno avremo una fetta di vita da bar locale. Veniamo accontentati.
Il posto è molto tipico, come te lo aspetteresti.
Dei manovali appena congedati da lavoro battono l’uscio con le loro birre in mano. Sono allegri. Io penso che ridano di noi.
“Ecco due polli che si sono fatti accalappiare.”
Il nostro pallore è inequivocabile: siamo turisti al secondo giorno di vacanza.
Ci accomodiamo in questo bar che offre al suo interno un certo numero di tavolini, non più di dieci, per capirci. Il barista arriva per le ordinazioni. Noi chiediamo di sorprenderci. Lui propone un cocktail locale, manco a dirlo a base di Rum. Bianco.
I nostri ospiti si premurano di avvisare il barista “I loro falli senza ghiaccio, sai, per via dell’acqua.”
Molto carino da parte loro. Il barista si mette subito al lavoro.
Mentre il barista sciorina Rum, noi riprendiamo la conversazione interpersonale ritornando alla questione figli. I nostri ospiti sono amareggiati. Vorrebbero proprio un secondo figlio, ma lo Stato non li aiuta in questo. Valentina chiede loro che lavoro facessero per non potersi permettere un secondo figlio in una nazione dove il tasso di natalità, diciamocelo, non è molto basso. “Io studio mentre lei lavora a scuola, fa l’insegnante.”
Io studio, rimbomba nella nostra testa. Io vengo risvegliato dal gong che il vassoio del barista suona colpendo il tavolo. Il beverage è servito, le nostre fauci sono sollazzate. Buono. Certo, col ghiaccio… ma no, in fondo meglio tenerci lontani dai guai intestinali.
Il nostro scambio continua. Ci chiedono che lavoro facciamo. Noi gli rispondiamo ma quanto appena detto non lascia per niente convinti i nostri ospiti. Loro non riescono a credere che lavoriamo “sotto padrone”. Forse ci deve essere un malinteso. Allora rilanciano.
“Sapete, da poco anche a Cuba si può lavorare in maniera autonoma. Ci si può aprire una cucina casalinga, un Paladar. Però, è incredibile, bisogna dare allo Stato una parte dei guadagni.”
“Ah, sì le tasse, le conosciamo bene anche noi.”
A questo punto lo stupore ha preso il sopravvento.
“Ma come, non solo lavorate sotto padrone, in più dovete dare i soldi allo Stato?”
Benvenuto nel capitalismo assistenzialista, baby.
Allora gli spieghiamo che la tarjeta da noi non esiste e che nessuno ti garantisce di mettere del riso in bianco sotto i denti. Che per comprare una casa ci si indebita tutta la vita. Che non è per niente facile essere schiavo del denaro in un mondo in cui si dà un prezzo anche all’aria che si respira.
Loro convengono di non avere questo problema, in effetti. Vorrebbero essere comunque più ricchi.
Penso: “Ecco che abbiamo fatto con il nostro turismo. Siamo venuti qui a sventagliargli in faccia i nostri CUC senza raccontare loro della gente che rovista nei cassonetti prima di tornare a dormire sotto i ponti.” D’altronde, chi può permettersi di viaggiare è un privilegiato, e in quanto viaggiatore non voglio neanche stare qui a cantare un’ode alla povertà, quando la conclusione del sillogismo mi sembra ovvia.
Chiedo la cuenta con sicumera.
Riportando lo sguardo verso il tavolo mi soffermo su un oggetto particolare: un tubo fuoriesce dal pavimento e, curvandosi, porta sollievo con un circolo d’aria. Calda. Per lo meno smuove un po’ l’atmosfera che rischiava di appiccicarsi sulla nostra pelle.
Paghiamo il conto.
Paghiamo un po’ di latte alla bambina dei nostri ospiti. Sono molto contenti. Anche della chiacchierata.
Chissà se esiste veramente questa bambina, ma in fin dei conti non è così fondamentale.
Usciamo da l’ “Intermezzo” mentre ancora scambiamo gli ultimi convenevoli con i nostri amici.
I manovali sono ancora sulla porta che bevono e fumano. E ridono. Al diavolo! – penso – sarà stata una dura giornata di lavoro per loro, si godano il meritato riposo. Domani si ricomincia. E allora mi convinco del fatto che no, non ce l’avevano con noi, che non ce l’avevano con nessuno. Sono solo lì ad accompagnarsi al meritato riposo. Noi, che siamo turisti, stasera onoreremo il Compay Segundo.
Tiriamo il fiato, possiamo abbassare la guardia. Stasera non ci saranno altri cubani con cui scambiarci frammenti di vita.

Carmine Russo, 2016, La Habana